mercoledì 8 gennaio 2014

La macchina di Darwin

La teoria evoluzionistica di Darwin diventa un sistema automatizzato. Almeno nell’esperimento di Brian Paegel e Gerald Joyce del Scripps Research Institute, in California. Come riportato in un articolo pubblicato su Plos Biology, i due ricercatori hanno creato una “macchina” controllata da computer in cui gli enzimi a Rna (dei catalizzatori biologici, ovvero proteine che accelerano le reazioni) evolvono naturalmente, senza l’intervento umano. Il sistema infatti, una volta innescato, progredisce autonomamente: le mutazioni casuali e la pressione selettiva (rappresentata dai reagenti utilizzati come substrato e da altri enzimi presenti) agiscono come in natura, e alla fine il catalizzatore più adatto all’ambiente risulta essere anche il più numeroso.
Quando in una popolazione si presenta - casualmente - una variazione trasmissibile alla prole (quindi genetica) che conferisce un vantaggio agli individui che ne sono portatori, allora si ha evoluzione: questi individui hanno infatti più probabilità di riprodursi e, col passare delle generazioni, la maggior parte della popolazione presenterà quella mutazione che si dimostra vincente per quel determinato ambiente e in quel particolare momento.
Nella macchina di Paegel e Joyce avviene lo stessa cosa: il sistema parte da un gruppo di enzimi a Rna tra loro molto simili. Quelli che fanno reagire le sostanze presenti con maggior successo hanno “in premio” la possibilità di “riprodursi”, grazie a un promoter biologico che si lega agli enzimi stessi. Altre proteine presenti nella macchina, infatti, hanno il compito di riconoscere gli enzimi con il promoter e di indurli a replicarsi, in maniera tale che gli enzimi ad Rna più adatti per il substrato diventino sempre più numerosi.
Sia il substrato reagente che i promoter, però, diminuiscono a ogni generazione e, in perfetto accordo con la teoria selettiva, la macchina finisce per generare l'"enzima migliore", che lavora più velocemente e con concentrazioni di substrato più basse degli enzimi di partenza. Nell’esperimento riportato l’enzima finale ha subito 11 mutazioni che lo hanno fatto diventare 90 volte più efficiente del suo progenitore.
La capacità di far fronte alla scarsità del substrato sarà un elemento comune a tutti gli enzimi ad Rna evoluti in ciascun esperimento condotto dalla macchina, ma le mutazioni che conferiranno questa capacità saranno casuali e non potranno essere predette.

KOI-314c, l'esopianeta gonfio


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Continua anche nel 2014 la carrellata di pianeti extrasolariindividuati dagli astronomi: il primo di quest’anno si chiamaKOI-314c, si trova a circa 200anni luce di distanza da noi e, secondo gli scienziati, sarebbe una versione più calda e più gonfia del nostropianeta. Il bizzarro esopianeta presenta infatti una massache è molto simile a quella della Terra, ma la sua spessissima atmosfera lo rende quasi il 60% più grande del nostro pianeta.

La sua scoperta, annunciata alla 223esima edizione del convegno dell’American Astronomical Society, è avvenuta per caso mentre gli scienziati stavano studiando i dati ottenuti dal telescopio Kepler della Nasa alla ricerca di esolune (satelliti naturali che orbitano attorno a pianeti extrasolari): “Quando abbiamo notato le variazioni nelle durate dei transiti, ci siamo resi conto che doveva trattarsi di un pianeta e non di una luna”, ha commentato David Kipping dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, principale autore dello studio. “All’inizio eravamo delusi che non si trattasse di un satellite, ma poi ci siamo resi conto che era un risultato straordinario”.

KOI-314c orbita intorno a una nana rossa, una stella piccola e relativamente fredda, ma molto diffusa nell’universo, ed impiega circa 23 giorni a compiere un giro completo. Gli scienziati hanno stimato che la sua temperatura superficiale si aggira attorno ai 100°C, probabilmente troppo alta per favorire l’esistenza della vita. La spessissima atmosfera del pianeta, che si estende per centinaia di chilometri, è composta principalmente da idrogeno ed elio (probabilmente era assai più estesa in passato, ma la maggior parte è evaporata a causa delle radiazioni emesse dalla stella).

“Questo pianeta può anche avere una massa simile a quella della Terra, ma sicuramente non gli somiglia” ha aggiunto Kipping, “la sua esistenza prova che non esiste una linea di demarcazione precisa tra i pianeti rocciosi come la Terra e i pianeti costituiti da acqua o da gas”.

KOI-314c non è l’unico oggetto che orbita attorno a questa nana rossa: un secondo pianeta, denominato KOI-314b, compone il sistema, impiegando circa 13 giorni ad effettuare una rivoluzione attorno alla stella. Proprio grazie alla presenza di questo pianeta fratello, gli scienziati hanno potuto calcolare la massa di KOI-314c, tramite una tecnica chiamata variazione dei tempi dei transiti (TTV), che misura come la gravitàdi un corpo celeste viene influenzata dai movimenti di un oggetto vicino.

martedì 7 gennaio 2014

Alma e la super fabbrica di polvere stellare


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Da dove si origina tutta la polvere dispersa nelle galassie? Per gli astronomi gran parte di questa polvere stellare deriva dalle supernovae, esplosioni molto luminose che marcano la fine della vita di una stella massiccia. Oggi a sostegno della tesi degli scienziati arrivano le immagini catturate dall’osservatorio Alma, che ha immortalato, per la prima volta, i resti di una recente supernova densamente popolati, nel loro centro, da polvere di nuova formazione.
Si tratta, come spiegano gli scienziati, di una scoperta importante per rendere ragione dell’origine e dell’aspetto stesso delle galassie. Se infatti questa polvere neoformata transitasse nello Spazio interstellare si riuscirebbe così a spiegare l’aspetto polveroso di molte galassie lontane.
La supernova immortalata è 1987A, si trova nella Grande Nube di Magellano e si presenta con un centro rosso (la zona polverosa), definita da una zona blu e verde rappresentante l’onda d’urto che si espande nello Spazio, come spiega New Scientist. L’immagine in realtà è il frutto del lavoro non solo di Alma ma anche del telescopio Hubble e del Chandra X-ray Observatory.
Come previsto dai ricercatori, il raffreddamento del gas dopo l’esplosione avrebbe dovuto portare alla formazione di molecole costituite da ossigeno, carbonio e silicio, e le osservazioni compiute grazie ad Alma hanno in effetti rivelato grandi quantità di monossido di carbonio e ossido di silicio.

Che forma ha il posto più freddo dell'Universo

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Con la sua temperatura di 1 gradoKelvin, la nebulosa Boomerang, che si trova a circa 5000 anni luce da noi nella costellazione del Centauro, è l’oggetto più freddo dell’Universo. Si tratta di unanebulosa planetaria, ossia della fase finale della vita di una stella simile al nostro Sole: spogliata dei suoi livelli più esterni e ridotta a una nana bianca, essa emette intense radiazioni ultravioletteche fanno sì che i gas presenti nella zona si illuminino di colori brillanti. Utilizzando i dati ottenuti dall’Atacama Large Millimete/submillimeter Array Telescope(Alma) in Cile, un team di ricercatori della Nasa ha studiato questo oggetto per cercare di capirne le caratteristiche principali, inclusa la vera forma.

“Questo oggetto estremamente freddo è incredibilmente interessante, e stiamo imparando molto di più sulla sua vera natura grazie ad Alma” ha spiegato Raghvendra Sahai, autore principale dello studio, pubblicato su The Astrophysical Journal, “Quella che dai telescopi terrestri sembrava una nebulosa a doppio lobo, o a forma diboomerang (da cui il nome, nda), è in realtà una struttura molto più grande, che si sta rapidamente espandendo nello Spazio.”

Dalle prime osservazioni infatti, effettuate con telescopi a terra, la nebulosa appariva asimmetrica, mentre le successive immagini ottenute con l’Hubble Space Telescopene hanno rivelato la struttura a fiocco. I nuovi dati provenienti da Alma tuttavia lasciano intendere che i due lobi gemelli individuati da Hubble potrebbero essere un’illusione ottica causata dalle lunghezze d’onde della luce visibile.

Grazie alle nuove immagini ottenute con Alma, ricercatori hanno scoperto un denso anello di microscopici granelli di polvere in orbita attorno alla stella, che spiegano la forma a clessidra della nebulosa, se osservata nel visibile: questi granelli creano infatti una specie di maschera che ombreggia parte della stella centrale e permette alla luce di filtrare solo in alcune direzioni. Nel complesso la nebulosa ha una forma simile a quella di un fantasma.

“Questo studio è importante per capire come muoiono le stelle, e come diventano nebulose planetarie” ha aggiunto Sahai, “Grazie ad Alma siamo riusciti, letteralmente, a fare luce sulle ultime fasi della morte di stelle simili al Sole.”

Ice Cube, una nuova era per l'astrofisica


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                                              "È l'inizio di una nuova era per l'astronomia". Non va certo per il sottile,Francis Halzen, ricercatore a IceCube, l'enormerivelatore di particelle nel mezzo dei ghiacci dell'Antartide. E ne ha ben donde: la collaborazione internazionale che vi lavora ha infatti appena annunciato, in un lavoro pubblicato su Science, la scoperta di 28 neutrini ad altissima energia provenienti dall'esterno del nostro Sistema Solare. Si tratta della prima evidenza sperimentale di questo tipo, estremamente importante perché aiuterà la comunità scientifica a capire come, dove e perché si originano e si sviluppano iraggi cosmici e le particelle che ogni istante colpiscono la superficie terrestre.

I neutrini sono particelle subatomiche quasi prive di massa, che interagiscono molto raramente con la materia e per questo motivo arrivano sulla Terra praticamente inalterati rispetto a quando vengono generati, portando con sé preziosissime informazioni sui fenomeni a più alte energie e più lontani nell'Universo. Senza che ce ne accorgiamo, miliardi di neutrini passano attraverso il nostro corpo ogni secondo, ma la grande maggioranza di essi ha origine nel Sole o nell'atmosfera terrestre. I cosiddetti neutrini cosmici, invece, sono estremamente più rari. È per questo che la scoperta di IceCube è così importante. L'unica cosa certa sulla loro genesi è che avviene parecchio lontano da noi, probabilmente all'interno di potenti incubatori cosmici come supernove, buchi neri, nuclei galattici attivi o pulsar.

In effetti, IceCube sta dando parecchie soddisfazioni alla comunità scientifica. Era stato progettato per raggiungere due obiettivi: misurare il flusso di neutrini ad alta energia e provare a identificare le loro sorgenti. È costituito da 5.160 moduli ottici digitali sospesi su 86 stringhe incapsulate in un chilometro cubo di ghiaccio, ed è in grado di rivelare i neutrini osservando piccoli lampi di luce blu – la cosiddetta luce Cherenkov – prodotta quando le particelle interagiscono con il ghiaccio. E sembra funzionare bene: "Il segnale che abbiamo osservato è statisticamente molto significativo, con una confidenza di 4 sigma [che corrisponde al 99.99994% di attendibilità, nda]", spiega Olga Botner, portavoce della collaborazione IceCube. "Ora stiamo lavorando per raffinare ulteriormente le osservazioni e comprendere esattamente cosa implicano".

Tutto era iniziato ad aprile 2012, quando IceCube aveva rivelato Bert ed Ernie, i primi due neutrini ad altissima energia, oltre un petaelettronvolt (PeV). Dopo la scoperta, l'équipe ha cercato altri eventi nei dati raccolti tra maggio 2010 e maggio 2012, scoprendone in tutto 26, tutti con energie di 30 teraelettronvolt o più, il che è un indizio univoco che si tratta effettivamente di neutrini cosmici. Dal momento che essi si muovono in linea retta, senza risentire di forze esterne, possono fungere da riferimento per la ricerca del luogo in cui si sono originati. Sebbene "i 28 neutrini finora scoperti siano ancora troppo pochi per puntare in una direzione precisa", conclude Gregory Sullivan, della University of Maryland, "stiamo raccogliendo altri dati. Alla fine, sarà come guardare una fotografia dello spazio con tempi di esposizione lunghissimi".